Il caporalato in Italia è, purtroppo, largamente diffuso, specialmente quando si parla di GDO, Grande Distribuzione Organizzata. La GDO, infatti, detta legge sull’intera filiera e stabilisce il prezzo del prodotto ancora prima che inizi la stagione di raccolta. Le catene di supermarket fissano poi gli standard di quantità e qualità. Chi ne paga il prezzo più alto quindi? Tutta questa pressione sui prezzi si scarica sull’azienda agricola e ancor di più sul bracciante, che vedrà calpestati i suoi diritti. In pratica, tutto il potere economico e finanziario è nelle mani della GDO. Se la Grande Distribuzione non cambia è praticamente impossibile abbattere il caporalato. Ma cos’è il caporalato? Chi trae maggior vantaggio e cosa alimenta questo business disumano? Cosa può fare il consumatore per contrastare questo sistema di sfruttamento?

Cos’è il caporalato?

Per caporalato si intende lo sfruttamento della manodopera a bassissimo costo. È un sistema ben consolidato, strutturato ed organizzato, molto diffuso nel settore dell’agricoltura e dell’edilizia. Si tratta di una moderna forma di schiavitù che opprime le fasce più deboli e povere, bisognose di un impiego lavorativo. Il reclutamento dei lavoratori avviene da parte del caporale. Questa figura esercita un vero e proprio monopolio sull’attività di intermediazione, tra proprietà agricola e lavoratori. Recluta il bracciante, definisce i tempi di lavoro e i criteri di versamento delle paghe. Il caporale risulta essere spesso l’unico punto di riferimento per i braccianti, che nella maggior parte dei casi non conoscono nemmeno la lingua. Anche gli imprenditori agricoli ammettono la sua utilità nella mediazione con i lavoratori, nel trasporto nei campi e nel reperimento di un alloggio. Servizi che, a detta loro, nessun ufficio di collocamento riuscirebbe ad offrire.

Purtroppo, il lavoratore reclutato dal caporale vede calpestati tutti i suoi diritti sotto la morsa del ricatto e dell’intimidazione. Secondo le indagini e le interviste intraprese da In Migrazione, i braccianti vengono impiegati nei campi senza alcun tipo di tutela, dalla sanità, alla sicurezza, al salario e persino al riposo. Si ritrovano così a dover lavorare 12/14 ore al giorno, 7 giorni su 7, sotto il sole, senza cibo né acqua, in cambio di un compenso irrisorio. Stiamo parlando di pochi euro l’ora o addirittura di qualche centesimo per kg raccolto. Il tutto è racchiuso in una cornice di soprusi, violenze e minacce. Sono costretti a vivere nei famosi ghetti, in condizioni fatiscenti e degradanti. Il caporale, gestendo l’intera vita quotidiana del bracciante, dagli spostamenti, al vitto e alloggio, ai contatti sociali, allo stipendio, costruisce un sistema di controllo e potere a cui è estremamente difficile sottrarsi.

Cosa alimenta il caporalato in Italia?

La GDO è la filiera che incrementa l’illegalità e lo sfruttamento di manodopera e il caporalato non è altro che un “piccolo” tassello che prende a calci il progresso e la civilizzazione fatti finora. Il caporalato è poi strettamente collegato all’Agromafia, la criminalità organizzata nel settore agricolo. Gli immigrati irregolari diventano presto schiavi, costretti a lavorare per pochi spiccioli per ripagare il debito di viaggio dall’Africa o dal Medioriente. Secondo il rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto è una tratta di schiavi in piena regola. Vede un business di 25 miliardi di euro e 2,5 milioni di persone, vittime del traffico di esseri umani. L’infiltrazione mafiosa è presente, in realtà, all’interno dell’intera filiera, dalla produzione, alla logistica, alla vendita. Basti pensare che, già negli anni ’70, la criminalità organizzata allontanava i commercianti esteri per avere il monopolio sul mercato. In questo modo, era libera di dettare il prezzo di consumo.

Ad oggi, diversi fattori contribuiscono ad abbattere i costi di vendita e, di conseguenza, alimentano questo business malato:

  • L’importazione di prodotti dall’estero, della stessa qualità, ma ad un prezzo inferiore.
  • La scarsa organizzazione commerciale dei piccoli produttori. Il mercato è molto frammentato e le OP, Organizzazioni di Produttori, sono restie a collaborare con le istituzioni. Non rinnovandosi, fanno fatica a competere con la qualità e i prezzi del mercato internazionale.
  • Il calo della qualità causato dalla mancata innovazione ed investimento sul prodotto o sul processo produttivo.
  • L’alta tassazione e la crisi economica. Nella maggior parte dei casi, i piccoli produttori fanno ricorso all’illegalità per cercare di contenere i costi. Questi tagli si ripercuotono sempre sull’anello debole della catena, il bracciante.
  • Gli intermediari. Le OP si avvalgono di intermediari, i caporali, che si arricchiscono a discapito dei piccoli produttori, sfruttando la manovalanza senza un minimo di tutela.
  • Il silenzio. È fondamentale sensibilizzare l’opinione pubblica per istruire il consumatore. Nella maggior parte dei casi, non è a conoscenza di tutti questi illeciti. L’informazione può aiutarlo a compiere scelte consapevoli, nel rispetto del lavoratore e del suo diritto di vivere una vita dignitosa.

Finalmente qualcosa si muove

Nonostante questo sistema di sfruttamento sia rimasto nell’ombra per anni, qualcosa sta cambiando. Il caporalato è diventato reato. Prevede, oltre alla confisca dei beni, dai 5 agli 8 anni di reclusione e una multa di 1000/2000€ per ogni bracciante reclutato. Per essere considerato un reato perseguibile, però, non basta solamente la violazione dei diritti del lavoratore come l’igiene e la sicurezza, gli orari di lavoro, le ferie, i riposi e il salario. Per configurarsi, devono esserci anche l’uso di violenza, minacce, intimidazioni e l’approfittarsi dello stato di bisogno e necessità del lavoratore.

L’azione di contrasto al caporalato in Italia è nata in primis dagli stessi braccianti sfruttati, che incoraggiati da sindacati e associazioni, hanno iniziato a far sentire la propria voce. Hanno, così, avviato forme di protesta pacifiche, per sgominare questo sistema fatto di soprusi, episodi di razzismo e discriminazione. Nel mirino di queste proteste ci sono la GDO e le multinazionali della logistica che insieme abbattono i costi di manodopera e favoriscono questa rete di sfruttamento.

Non solo da parte di FLAI e CGIL, ma anche da parte del governo italiano si è presa più consapevolezza. Negli anni hanno intrapreso cause legali, hanno avviato processi penali e, in alcuni casi, hanno sgominato queste organizzazioni criminali. Il caporalato in Italia, però, è ancora molto presente. La strada per ridonare dignità a 450 mila persone che vivono in condizioni di sfruttamento lavorativo, di cui 130 mila in para-schiavitù, è ancora lunga. Ma anche noi consumatori, nel nostro piccolo, possiamo fare qualcosa per contribuire all’abbattimento di questo sistema retrogrado e disumano.

In che modo il consumatore può contrastare il caporalato in Italia

Da un lato, il governo si sta muovendo a favore dei diritti di questi lavoratori. Grazie alla riqualificazione professionale e al sostegno individuale. Spronandoli a denunciare l’illecito subito, tutelandoli e garantendogli giustizia, libertà e dignità. Dall’altro però, deve esserci una presa di coscienza anche da parte del consumatore. Il caporalato, essendo un problema legato alla Grande Distribuzione Organizzata, può essere in parte sgominato grazie alle scelte dei consumatori. Alla fine dei conti, se la domanda di massa viene a mancare, queste organizzazioni sono destinate a scemare. Basti pensare che per ogni euro speso dal consumatore, secondo la Coldiretti, il 60% va alla distribuzione commerciale, il 23% all’industria di trasformazione e solo il 17% all’agricoltore che, per contenere i costi, è costretto a ricorrere all’illegalità e a fare dei tagli proprio sui diritti del bracciante.

“L’impero della GDO avanza grazie allo sfruttamento ecologico e socioeconomico, alla degradazione del lavoro, della natura e della cultura. Solo una diffusa e rinnovata forma di ricontadizzazione potrebbe essere la soluzione per scongiurare una crisi agricola mondiale” (Van Der Ploeg, docente di Sociologia Rurale presso l’Università di Wagenigen, Paesi Bassi). Dato che non basta solo, quindi, una nuova forma di agricoltura improntata sul progresso, cosa possiamo fare noi consumatori per arginare, almeno in parte, il problema del caporalato in Italia?

È presto detto, scegliendo la filiera corta con un minor numero di intermediari, così da tutelare non solo l’ambiente, ma anche i diritti dei lavoratori. Scegliendo prodotti controllati, certificati e di sicura provenienza. Preferendo alimenti bio e a km0 in modo da preservare la qualità, la freschezza e il naturale sapore del cibo. Valorizzando il territorio locale e consumando frutta e verdura di stagione anziché scegliere prodotti d’oltreoceano dalle tratte infinite. La chiave per sgominare questo business disumano è proprio avere quella consapevolezza che le nostre scelte possano lentamente iniziare a cambiare il mondo. E, in tal senso, la tecnologia è a nostro favore in quanto permette una diversificazione dei canali di vendita. Con Internet e gli E-commerce, per esempio, il consumatore avrà più libertà di scelta, sarà sempre meno dipendente dalla Grande Distribuzione e, di conseguenza, non sarà complice di tutti gli illeciti che ne derivano.